Un tempo erano le Sette Sorelle a dominare il mercato petrolifero, influenzando le economie mondiali e condizionando le scelte politiche dei governi. Oggi, il testimone sembra essere passato ai fratellastri Big Tech, il cui potere appare smisurato e privo di scrupoli. Cresciuti troppo in fretta per essere considerati maturi, mossi da una competitività senza limiti, hanno rapidamente trovato un punto d’incontro: amplificare le linee guida della nuova amministrazione americana attraverso i loro strumenti di informazione e gestione dei dati.
Le conseguenze di questa nuova dinamica sono già tangibili nei temi più duri, come la politica dei dazi, il budget per la difesa o le strategie ambientali. Ma anche in ambiti più sfumati, come l’erosione delle policy DEI (Diversity, Equity & Inclusion): alcuni giganti tecnologici hanno prontamente adeguato le proprie strategie alle volontà del potere, cancellando programmi di inclusione e accelerando il ritorno in ufficio dei lavoratori ibridi. Una mossa che, se da un lato ha causato defezioni, dall’altro ha gettato le basi per futuri ridimensionamenti aziendali legati all’avanzata dell’intelligenza artificiale. Tutto questo, naturalmente, nel nome di una ritrovata competitività globale.
Il fenomeno non si fermerà negli Stati Uniti: i grandi gruppi americani stanno ridefinendo i rapporti tra azienda e dipendenti, e presto questa trasformazione verrà esportata in Europa senza pagare dazio. Con una velocità di propagazione maggiore rispetto al passato, perché lo scenario competitivo si sta facendo più rigido. Tanto che la “complessità”, parola chiave degli ultimi anni per descrivere le sfide del contesto economico internazionale, potrebbe presto essere ricordata con nostalgia come un’epoca più civile e rispettosa.
Per chi ricopre ruoli manageriali, il prossimo futuro si prospetta come l’ennesima fase di cambiamento. Machiavelli scriveva: «Non c’è nulla di più difficile da gestire, di esito incerto e così pericoloso da realizzare che un nuovo ordine di cose». E proprio qui si ripropone il grande interrogativo: quale leadership sarà più adatta per affrontare questo scenario?
Fino a ieri, il modello dominante era quello del leader gentile: empatico, comunicativo, coinvolgente, capace di attrarre talenti con purpose ispirazionali e benefit personalizzati. Un modello che ha avuto il merito di traghettare le aziende fuori dal trauma del Covid, ma che oggi appare inadeguato per affrontare un’arena competitiva più dura. Il fioretto deve lasciare il posto alla spada, perché c’è già chi combatte con la sciabola.
Meno “woke”, più “wake”. Determinazione, rapidità, autonomia decisionale, capacità di assumersi rischi e responsabilità, energia e tenacia: queste saranno le qualità richieste ai leader del prossimo futuro. Una leadership franca e leale, capace di prendere decisioni scomode – come un licenziamento – senza ricorrere a pratiche subdole come il mobbing.
In passato, quando l’industria manifatturiera pesava per oltre il 30% del PIL, questa mentalità era più diffusa. E forgiava manager capaci di affrontare le sfide anche nei settori finanziari e dei servizi. Oggi, il leader “gentile” e quello “duro” rappresentano gli estremi di una scala di stili di gestione sulla quale i manager dovranno rapidamente scegliere il proprio posizionamento. Con una sola certezza: non potranno più permettersi di recitare un ruolo imposto da altri. La sfida, oggi, è trovare il coraggio di essere autentici.
Questo post è la libera reinterpretazione del pezzo magistrale pubblicato sul Sole24Ore a firma di Massimo Miletti, Presidente onorario Eric Salmon & Partners