Sono tonati alla ribalta con Trump ma, che cosa significa realmente imporre un dazio?
La teoria economica dimostra da quasi un secolo che i dazi sono un “gioco a somma negativa“: riducono la torta del commercio e del PIL mondiale, penalizzando sia chi li subisce che chi li impone. Sono un danno per tutti.
Prendiamo ad esempio i rapporti commerciali tra Stati Uniti ed Europa. L’imposizione di un dazio sui prodotti europei significa che questi ultimi diventano più costosi per il compratore americano. L’intento è quello di scoraggiare gli acquisti di beni importati, ma la realtà è più complessa.
Bisogna considerare il tasso di cambio tra dollaro ed euro: se il dollaro si apprezza rispetto all’euro dello stesso valore del dazio, la competitività dei prodotti europei rimane invariata. Se invece il cambio resta costante, il dazio fa aumentare i prezzi per il consumatore americano, il quale potrebbe decidere di continuare ad acquistare il prodotto a un prezzo più alto, contribuendo così all’inflazione statunitense. Ovviamente la reazione del consumatore dipende dalla qualità del prodotto e dal suo grado di sostituibilità. Se i beni europei sono di alta qualità e poco sostituibili, l’impatto del dazio sarà minore e le vendite potranno proseguire con pochi cambiamenti. Gli americani spenderanno semplicemente di più, evviva l’inflazione.
Ma non ci sono solo in gioco i consumatori, gli umini della strada. Pensiamo all’industria. Se alcuni prodotti italiani possono essere facilmente sostituiti con alternative locali, altri, come le macchine utensili, rimangono insostituibili per l’industria americana, il che significa che le imprese statunitensi continueranno ad acquistarli nonostante il dazio. Questo potrebbe addirittura spingere al rialzo i prezzi dei prodotti finiti negli USA, creando un effetto boomerang.
La storia ci offre un monito: il caso dell’Argentina degli anni ’50, che da Paese tra i più ricchi del mondo è scivolato nella povertà a causa di politiche protezionistiche che hanno reso le industrie nazionali meno competitive e hanno scatenato iperinflazione e svalutazione monetaria.
Quando si analizzano gli squilibri commerciali, bisogna guardare oltre la bilancia commerciale. Il deficit americano con l’Europa viene in gran parte riequilibrato dagli scambi di servizi e dai movimenti di capitale. Ogni anno, circa 300-350 miliardi di euro di risparmio europeo vengono investiti nei mercati finanziari americani. Questo accade anche perché l’Europa non ha un mercato dei capitali integrato e progetti comuni capaci di attrarre investimenti interni.
Se l’Europa rispondesse con contromisure protezionistiche, aggraverebbe il problema anziché risolverlo. La risposta più efficace sarebbe di natura politico-istituzionale: rendere permanente il Next Generation EU, raddoppiarne le risorse e gestirlo come un embrione di bilancio federale con debito comune. Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia, che rappresentano l’85% dell’UE, dovrebbero guidare questa strategia, lasciando le porte aperte agli altri Stati membri.
La liberalizzazione del commercio negli ultimi settant’anni ha favorito la crescita economica globale e contenuto l’inflazione. L’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio ha permesso a tre miliardi di persone di uscire dalla povertà, trasformando la Cina da un Paese esportatore di beni a basso costo a un attore di primo piano nel settore tecnologico.
Ecco perché i dazi di Trump potrebbero non ridurre il deficit commerciale americano come lui spera. La Cina stessa ha investito massicciamente nei titoli del debito pubblico americano, contribuendo a sostenere l’economia degli Stati Uniti.
In una guerra commerciale, non ci sono vincitori: tutti ne escono sconfitti.
Fonte: brillante articolo di Mario Baldassarri su IlSole24Ore